Storia in soffitta
Gli insediamenti celto-salassi lungo il basso corso della Dora Baltea
Mazzè: Nuove ipotesi in fase di studio
approfondimento di: Livio Barengo
La Stele di Mazzè, ritrovata nell’alveo della Dora Baltea nell’anno 1987 dall’associazione F. Mondino, era quasi certamente collocata in antico alla sommità della collina della Bicocca e nello scorso mese di marzo, approfittando di consistenti lavori di pulizia e di ripristino ambientale, le associazioni F. Mondino e Mattiaca tentarono di verificare se gli indizi che indicavano il sito come area cimiteriale di epoca celta – salassa erano attendibili. Purtroppo l’operazione non portò ad esiti positivi e non venne rilevato nessun indizio consistente a sostegno della tesi, ma costrinse a riflettere sulla genesi dei costumi funerari delle popolazioni che si insediarono nella zona nord occidentale del Piemonte nel corso della prima Età del Ferro, aderendo infine all’ipotesi che in antico nel Canavese si praticassero riti di incinerazione particolari.
Il postulato, correlato al fatto che nel Piemonte nord-occidentale non sono mai venute alla luce sepolture risalenti alla prima Età del Ferro (VI sec. a C.), accredita l’ipotesi che in quell’epoca si fosse stabilita in Canavese una popolazione proto celta appartenente alle culture di Halstatt A o B, migrata dalla Renania Palatinato all’inizio del primo millennio Avanti Cristo. Questa cultura prevedeva appunto l’incinerazione dei defunti e il successivo spargimento delle loro ceneri in siti circolari contornati da piccoli massi, con al centro una stele quale segnacolo della sacralità del luogo.
Le culture proto celta di Hallstatt A e B precedettero la fase C dei tumuli funerari colossali a cista, e quella più evoluta di La Tene, fiorendo nella Germania meridionale nel corso del Bronzo Finale e la Prima Età del Ferro (1200 – 800 a.C.). Un’ eventuale migrazione verso il Canavese di gruppi appartenenti a queste culture avvenne senz’altro in questo periodo, rimanendo poi, forse a causa del peggioramento delle condizioni climatiche, isolati per secoli sino all’arrivo dell’ondata migratoria celta raccontata da Livio nella sua Storia di Roma (V sec. a C.), conservando costumi funerari obsoleti rispetto a quelli dei nuovi venuti.
I partecipanti alla migrazione, dopo aver percorso itinerari noti perché praticati da secoli dai mercanti di area mediterranea, attraversate le Alpi al passo del Gran San Bernardo, si stanziarono lungo il corso della Dora Baltea fondendosi più o meno pacificamente con gli autoctoni Liguri, dando così luogo alla nascita di Salassi e Taurini. Questa prospettiva concede alla Stele di Mazzè, cosi come quelle del tutto simili di Chivasso e Lugnacco, la prospettiva che fossero i segnacoli dei siti funerari delle popolazioni proto celta stanziatesi in Canavese durante la prima Età del Ferro. Nel caso della Bicocca, considerato che oltre a Mazzè anche altre località circostanti conservano qualche ascendenza celta nel loro toponimo, è possibile che questo luogo fosse il sito funerario comune di molti luoghi.
I celti erano una sorta di cavalieri erranti dediti all’allevamento del bestiame portatori della tecnologia del ferro, non appartenevano alla medesima etnia ma erano uniti da una cultura comune. I loro insediamenti non andavano oltre la ventina di persone, ed erano situati sui terrazzamenti alluvionali lungo i fiumi, il che, oltre a permettere il controllo del territorio circostante, specialmente per quanto riguardava il transito sul corso d’acqua, li rendeva sicuri dal pericolo dalle alluvioni.
Quanto argomentato costringe a valutare la possibilità che sulla Dora Baltea, similmente a quanto avvenuto lungo il Ticino, esistesse un punto di scambio tra la popolazione autoctona e i mercanti che navigavano il fiume, valutando fatti avvenuti negli ultimi decenni sotto un ottica diversa da quanto supposto a suo tempo.
Nel corso dell’anno 1993, nel corso di un accesso al sito archeologico della Resia, il dottor F. M. Gambari, allora funzionario di zona della Soprintendenza Archeologica del Piemonte, probabilmente colpito dalla morfologia del territorio, molto simile al tratto di Ticino lungo il quale si sviluppò in epoca protostorica la cultura di Golasecca, ipotizzò la possibilità che in questa zona fosse nato un punto di scambio tra la popolazione autoctona e i mercanti che navigavano sulla Dora Baltea diretti oltre le Alpi. Purtroppo a quel tempo, a causa principalmente del trasferimento del dott. Gambari ad altro incarico, la ventilata possibilità non ebbe seguito e cadde nel dimenticatoio.
Successivamente nel mese di marzo dell’anno 2013, dei membri della associazioni F. Mondino e Mattiaca, nel corso di un’ ispezione all’interno delle aurifodine di Bose, notarono l’esistenza di un pianoro della superficie di circa 1.500 metri quadri, situato su di rilevato prospiciente la strada romana che risaliva la collina. Rilevando la presenza di un bastione perimetrale di discreta altezza, di una gran quantità di massi di medie dimensioni e di muricci di ciottoli privi di legante. La scoperta creò una certa curiosità e si procedette alla parziale pulizia del sito, estirpando rovi ed arbusti che impedivano il passaggio, scoprendo tra le radici una discreta quantità di monete romane e decine di punte di freccia a spillone. Del tutto fu ovviamente avvertita la Sopraintendenza Archeologica del Piemonte, e i reperti trovarono posto nella bacheca collocata nella sala consiliare del municipio di Mazzè che già custodiva quanto ritrovato nei decenni precedenti.
Quasi contemporaneamente le due associazioni, vennero in possesso, tramite il comune di Mazzè, delle relazioni prodotte dalla ditta I.L.C di Rondissone nell’anno 2008 ai fini della legge 163/2006 redatte, per la parte geologica, dal dott. Franco Gianotti e per quella archeologica dalla dottoressa Antonella Gabutti. La parte che destò più scalpore, oltre a quella geologica relativa all’ aurifodina di Bose, fu che la dottoressa Gabutti prevedeva nella sua relazione lo scavo di quattro trincee di verifica, di cui una nel pianoro scoperto pochi mesi prima, in quanto a suo dire “la posizione sopraelevata e pianeggiante sembrerebbe coerente con un’area di insediamento o di frequentazione”. Purtroppo delle quattro trincee previste se ne realizzò unicamente una in una zona periferica dell’aurifodina, poi le ricerche furono abbandonate forse perché la ditta I.L.C non ne ravvisava più alcuna utilità.
In ultimo nell’autunno dello stesso anno, nel corso di lavori di disboscamento, furono rinvenuti a valle del pianoro ma lungo il tracciato della strada romana, alcuni oggetti di origine celta quali un torque in bronzo martellinato, una coppella di premonetazione e vari altri reperti probabilmente coevi. Un ulteriore sopralluogo fece comprendere che forse sul pianoro, stante la sua posizione, durante la II Guerra di Indipendenza del 1859 erano stati collocati dei cannoni a difesa dagli austriaci della linea della Dora Baltea, e che per renderlo possibile erano stati demoliti un tratto del bastione perimetrale e delle strutture interne, il che rendeva ipotizzabile che i reperti di origine celta ritrovati lungo la via romana provenissero da quel sito, poi trasportati a valle dalle acque meteoriche.
Allo stato dell’arte, augurandosi vengano fatte ulteriori ricerche, si ritiene quindi corretto poter ipotizzare la possibilità che il pianoro sia forse il luogo in cui sorse nella prima Età del Fero un centro celta salasso avente il nome di Mattiacu. Nome trasmigrato alcuni secoli dopo al centro romano di Mattiacum, sorto nella piana adiacente alla cappella dei santi Lorenzo e Giobbe.