Storia in soffitta
Piorè me na vis
Le gustose, lontane e divine radici delle lacrime
approfondimento di: Franca Giusti
« … Sunt et Amineae vites, firmissima vina, Tmolius adsurgit quibus et rex ipse l'hanaeus … »
Da Locri a Taranto, dal Volturno al Gargano. I greci chiamarono questa terra Enotria ed i suoi confini furono cari ai residenti dell’Olimpo che l’hanno resa grande, leggiadra, assolata e ricca di frutti persino più della terra madre. Era la Magna Grecia, μεγάλη Ελλάς και Σικελία. Sicilia a parte. Un profilo culturale e sociale molto ben definito ed autonomo al tempo dei Romani. E i Romani non tardarono ad apprezzarne alcune peculiarità e tradizioni come avvenne in ambito vitivinicolo.
Quasi sconosciuta ai figli di Enea, l’uva bianca, in tutta la Magna Grecia ed in Sicilia, era tra i nettari più amati tanto che già al tempo di Virgilio, nel I secolo a. C., alcune coltivazioni erano radicate nell'area flegrea e nella Valle del Sabato popolata dagli Aminei, proprio dove il poeta vate si trovava a vivere dopo la confisca dei suoi terreni nel mantovano. L’aminea gemina, è presente nel secondo libro del poema virgiliano che ne celebra il lavoro dei campi e la natura agreste, le Georgiche. E’ l’uva dal grappolo alato, quasi doppio, descritto da Plinio, "Gemellarum quibus hoc nomen uvae semper gemina dedere" ed è dunque dell’area campana ma il sentimento di Virgilio è tutto nostalgicamente autentico e nordico. Nel XVI secolo, il Della Porta, trattando delle Aminee, afferma che la "Minore", veniva chiamata Greca e la "Maggiore" era detta Grecula, ed avrebbe desunto dal de re rustica del Columella, che il famoso vino Amineo sarebbe il Greco dei suoi tempi. Nelle Georgiche sono descritte le viti coltivate dagli Aminei che secondo Aristotele provenivano dalla Tessaglia.
E qui al nord Italia, col tempo, l’uva bianca trovò un terreno fertile e propagò anche sulle colline moreniche del Canavese, moltiplicandosi e generando frutti utilizzati per i vini non troppo strutturati, di gradazione piacevole. Curiosa la radice vi che va a formare due sostantivi: Vis roboris, vigore e Vitis vitis, appunto la vite. Entrambi sostantivi femminili. Entrambi nati dalla stessa radice vi. E la vite, dal tronco robusto e lavorato, accompagnava i soldati in battaglia, i deboli nei loro passi, i cantori nei loro versi. Citiamo Archiloco, autore greco el VII secolo a. C., “Nella lancia c'è il mio pane nella lancia c'è il mio vino appoggiato alla lancia io bevo”
Le fonti letterarie ed epigrafiche ed i ritrovamenti dell’archeologia rurale raccontano dei numerosi vitigni degli Etruschi: Sopina, Etesiaca, Talpona, ecc… tutte elencate da Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) ed oggi scomparse di cui il primo mosto veniva in genere consumato subito, il restante era versato in contenitori di terracotta con le pareti interne coperte di pece o di resina. Il succo così ottenuto dopo un tempo di riposo, veniva schiumato per sei mesi poi, a primavera, filtrato e versato nelle anfore. Successivamente mescolato, all'interno di crateri, con acqua e miele, e finalmente versato nelle coppe dei commensali presso le mensae vinariae, rivendite di vino al minuto o le tabernae vinarie vere enoteche o i thermopolium semplici bar.
Un calice di vino racconta millenni di storia.
Tra i racconti delle nostre terre, ne aleggia uno, poco noto ma suggestivo, che riporta il nome e l’origine dell’Erbaluce ad un tempo lontanissimo, prima ancora dei greci, al tempo in cui la dea Alba era innamorata dell’astro più luminoso del firmamento, il Sole. Non potendoci essere una presenza contemporanea di entrambi in cielo, il dio Tempo ostacolava il loro sentimento. Ma Amore, si sa, trionfa sempre e la Luna si fece complice, favorì l’incontro tra Alba e Sole e ne nacque una splendida ninfa, Albaluce. La ninfa, in autunno, procedeva su un carro trainato dai cigni bianchi del lago e gli abitanti se ne rallegravano. Dopo che la regina Ippa trasformò il lago della pianura di Caluso in terra fertile, si andò perdendo la memoria del lago, dei cigni e della ninfa. Ma la ninfa tornò e, vedendo la pianura infestata da alberi brulli e sterpaglie, si commosse. Le vennero incontro sette giovinetti e dai suoi occhi turgidi di pianto, scivolò una lacrima che, cadendo, trasformò le sterpaglie in un rigoglioso vitigno: l’Erbaluce dai grappoli dorati. Le lacrime della ninfa tornano ad ogni primavera quando, con la potatura, dai tralci sgorga la linfa che ricorda quel pianto. E quando si tratta di pianto, i piemontesi dicono “piorè me na vis”.
Fonti Bibliografiache
Rosa Mellina – Mario Durando “Sindone, che passione!”, ed. Pegaso 2008
Plinio, Naturalis Historia
Virgilio, Georgiche
http://www.consorziogreco.org/php/Vitigno-Greco-di-Tufo/Vitigno-Greco-di-Tufo.php