Il progetto

LA VIABILITÀ MEDIEVALE IN CANAVESE

Riprendendo una tradizione precristiana, già nei primi anni dell’era volgare si ha notizia di pellegrinaggi Roma e, a fasi alterne, il movimento continuò almeno sino alla fine del XVI secolo. Più di mille anni che videro cambiare sostanzialmente la rete stradale, gli itinerari e le situazioni dei paesi che i pellegrini dovevano attraversare.

In Canavese, nella tarda antichità e nell’alto medioevo, i romei giunti ad Ivrea dopo aver percorso la Valle d’Aosta, avevano due possibilità: percorrere l’antica Via delle Gallie, poi detta in seguito Franciasca o Francisca, oppure imboccare la strada militare che portava al ponte di Mazzè, per poi incamminarsi verso Bianzè e Livorno Ferraris, dove avrebbero incrociato la Via Liburnasca che li avrebbe condotti, passando per Salasco, a Vercelli. Le altre strade che si dipartivano dalla città di San Savino, almeno sino a quando non cadde in disuso la Via Militare e crollò il Pons Maior ad Ivrea, salvo quella pedemontana diretta a Torino, non si crede godessero di un particolare interesse per i viandanti.
Tra i due itinerari, la distanza da percorrere per giungere a Vercelli era pressoché eguale (circa ottanta chilometri). Passando da Mazzè si doveva forse camminare un po' di più, ma, almeno finché la viabilità romana fu in funzione, la strada era più facile e non presentava i pericoli generati dai continui problemi politici tra i Comuni di Ivrea e Vercelli.

Col passare del tempo, man mano che la rete antica si deteriorava, nuovi tracciati sostituirono quelli romani tanto che alcuni tratti vennero abbandonati perché ormai impraticabili. Molto probabilmente fu questa la causa dell’abbandono del tratto della Via Romana tra Ivrea e Alice Castello, quando il tracciato si spostò a nord oltre il lago di Viverone, ponendo l’itinerario ad un livello non soggetto all’impaludamento delle torbiere di Bollengo.
Eguale sorte dovette subire la via militare Quadrata-Ivrea nei pressi del lago di Candia. La zona oltre Carrone fu esondata dalle acque del lago, cosicché la strada dovette essere trasferita in collina, mentre il tratto Mazzè-Quadrata, con la distruzione di questa mansione e la nascita di Chivasso andò in disuso.
Lasciando ad altri la descrizione del percorso che ricalcava la Via delle Gallie, ci soffermiamo invece sulla strada che dirigeva a sud, precisando che le notizie sono tratte in gran parte dalle opere del Serra e dal suo “Contributo Toponomastico alla descrizione delle Vie Romane e Romee nel Canavese” riedito nel 1993 dal CORSAC di Cuorgnè, e da quanto scritto dal prof. G. Cavaglià nel volume “Contributi sulla romanità nel territorio di Eporedia” Edito nel 1998 dalla GET di Chivasso.

Per quanto riguarda il secondo ponte romano di Ivrea detto Pons Maior dal G.A.C. (Gruppo Archeologico Canavesano), si riporta integralmente quanto argomentato dal Cavaglià nel volume citato:
“ Possiamo supporre che esso [ponte di Ivrea] sia crollato non molto tempo dopo la sua costruzione, a causa delle alluvioni e della scarsa solidità delle basi, non improntate sulla viva roccia, e per una progettazione imperfetta. È pure probabile che sia stato costruito con una certa fretta, in tempi tardi dell’Impero Romano, per esigenze militari e sotto l’urgenza motivata dalla pressione dei barbari ai confini; infatti, penso, il ponte serviva la strada di collegamento con Quadrata, stazione militare di Sarmati. Dopo il crollo, i resti saranno stati riutilizzati in parte, nel medioevo ed oltre, per realizzare opere edilizie varie, o come materiale di riporto per l’argine del Naviglio, e per la massicciata del Lungodora. L’innalzamento del livello del fiume creato per alimentare il Naviglio, infine ne ha celato i resti sino ad oggi. Concludo osservando che un ponte di tali proporzioni doveva essere giustificato dalla enorme importanza della strada che serviva, la Eporedia-Quadrata appunto, che dall’attuale Lungodora d’Ivrea, fra Via Siccardi e Via dei Patrioti volgeva verso sud”

Lasciata Ivrea la strada militare si inoltrava nel territorio dell’ultraponte toccando la località Torfeno (oggi Torfano) e valicava il Chiusella al Goretum de Toriono (oggi Gore o Goretto, località posta sulla riva destra del torrente) a mezzo di un altro ponte, raggiungendo Carrone. Qui il Serra ipotizza esistesse la vera sede dei Sarmati stanziati ufficialmente ad Eporizio (Ivrea). In ogni caso in questa località si installarono nel corso del VII secolo degli arimanni longobardi, che innalzarono una chiesa a San Michele, il che avvalla l’ipotesi dell’esistenza di importanti nodi stradali.
A ulteriore prova della militarizzazione della zona, poco discosto da Carrone, esisteva Suagia o Suavia (oggi Cascina Savoia o Luisina), una colonia fondata dagli Svevi che tra l’altro edificarono una chiesa, oggi scomparsa, dedicata a San Pietro.
Dopo Carrone, non essendo il Serra al corrente che nel corso del XIV secolo, il paese era stato prima distrutto e poi ricostruito a nord-ovest della sua antica sede, citiamo quanto da lui argomentato a titolo di documentazione:
”Dal luogo di Carrone, che dimostra tutt’oggi nell’asse verticale della via che ne attraversa l’abitato l’importanza e la direzione dell’antica strada che ne percorreva il territorio contiguo, questa proseguiva per la Via de strata, scostandosi un poco dal luogo della chiesa di S. Maria di Puliascum” (S. Maria di Pugliasco) in territorio di Vische oggi scomparsa”.

Lasciata questa località, la via militare proseguiva sino alla base della morena frontale di Vische, verso il luogo detto Marmoreolum Palatium (Marmarolo) , mansione atta ad ospitare viaggiatori di alto rango, oggi sostituita dalla cascina Deserta, e seguendo le rive della Dora Baltea giungeva al pons Copacij, dipartendosi in due tronchi, uno verso Quadrata e l’altro, passato il fiume, dirigeva verso Ulliaco (Villareggia) ed il Vercellese.
Questo era l’itinerario seguito nella tarda antichità e nell’alto medioevo da romei e mercanti che sceglievano questa via per raggiungere Vercelli o Pavia. In seguito, come abbiamo già detto, la situazione cambiò, il lago di Candia tracimò impaludando la zona oltre Carrone e fu giocoforza trasferire la strada sulla collina che fronteggia la piana della Dora Baltea. All’inizio del XI secolo, al tempo del re Arduino, la situazione viaria canavesana si può riassumere nei seguenti termini: da Ivrea a Carrone i viandanti potevano ancora usufruire dell’antica via militare, ma dopo questo luogo la strada romea percorreva la collina sulla cui sommità ancora oggi sorge la chiesa di Santo Stefano, allora forse titolata a Maria Vergine e di proprietà dell’Ospizio del Gran san Bernardo, per poi dirigere verso Mazzè e il pons Copacij.

In ogni caso però il transito maggiore, dopo il crollo del Pons Maior ad Ivrea, era trasmigrato ad ovest, sull’antica strada romana Ivrea-Torino, come attestano le chiese e gli ostelli di san Martino di Chiusellaro, frazione di Colleretto Giacosa, santa Maria di Morano a Perosa Canavese, san Giacomo e san Eusebio al Masero a Scarmagno. Qui, come provato dalla romanica chiesetta quasi diroccata di san Pietro a Villate di Mercenasco, l’itinerario si sdoppiava: il percorso principale dirigeva verso Candia, sino a raggiungere l’ostello di Novenchiaro, oggi ricordato da una cappella dedicata a san Antonio, ricollegandosi alla via che conduceva al ponte di Mazzè, mentre il secondo proseguiva e, valicata la collina morenica, percorreva la pianura canavesana sino a raggiungere Torino.
Oltre Candia, la via romea, raggiunto il lago, dirigeva verso Mazzè, risalendo il dolce pendio della valle della Motta, e toccava la chiesa di Santa Maria fuori le mura e poi scendeva verso la Dora Baltea, trovandovi la chiesa di Santa Maria Maddalena ed il ponte Copacij, nonché l’antica viabilità Romana.
Valicata la Dora Baltea a Ulliaco, la via romea raggiungeva l’Ospizio di S. Maria di Olliate (1) e la chiesa di san Martino, dove confluivano i viaggiatori provenienti dai paesi ad est del fiume, poi i viandanti diretti a Pavia o ad Asti dirigevano verso Livorno Ferraris, mentre quelli indirizzati a Vercelli proseguivano verso Bianzè, dove avrebbero trovato l’antica Via Liburnasca che li avrebbe condotti a destinazione.

(1) L’esistenza di questo ostello formulata dal Serra viene confutata da Guido Forneris


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